Carbonara Vegetariana

“Ho la pasta. Ho le uova. Ho il pecorino. Ho pure il pepe. Epppperò manca il guanciale”: fu questo che dissi in preda alla fame e a improvvisate intuizioni gastronomiche. Il problema è che non sono mai stato molto bravo a risolvere i problemi. Aprii mestamente il frigo e notando delle zucchine lì per lì pensai che no, non sarei proprio stato capace di commettere un’empietà simile. Poi io, nel Lazio, c’avrei anche degli amici. Quell’attimo di indecisione che dalla percezione conduce all’azione può essere fulmineo ma può essere anche estenuante; se si dilata, mette in crisi il rapporto senso-motorio. Me lo suggeriva spesso il mio amico Gilles, quello che con Félix viveva al millesimo piano e che un giorno sì e l’altro pure diceva di volersi far fare la manicure ma poi non trovava mai gli stimoli giusti e rimaneva lì seduto, a filosofeggiare. Quella seconda eventualità, quella dell’incertezza, io comunque la conosco fin troppo bene perché mi appartiene: è quella degli uomini in crisi esistenziale, dei procrastinatori, dei vagabondi. L’inconsistenza di ogni simbolo in cui credevo fermamente si palesava ormai a cadenza ciclica, la fiducia non la riponevo più in nulla perché essa era stata tradita troppe volte spudoratamente. Se queste erano le condizioni, non vi era più motivo di affidarla all’osservanza delle regole. Queste sarebbero state riscritte e fatte aderire alle contingenze e alle necessità per dar luce a… una Carbonara Vegetariana. Decisi di rendere manifesti i miei intenti blasfemi attraverso i mezzi di comunicazione dell’epoca ed infine mi decisi ad agire. Fu così che l’uovo non si strapazzò, la croccantezza der guanciale venne con restituita con garbo dalla polivalente zucchina e lo spaghetto venne degustato con soddisfazione e, godardianamente, fino all’ultimo respiro. Nel vero senso della parola. Solo qualche giorno mi ritrovai infatti al suolo, agonizzante, in quel di Roma. Vedevo tutto in bianco e e nero, le stesse tonalità della manciata di biscotti che mi avevano avvelenato. Dato il luogo della mia imminente dipartita, pensai che di coincidenza non poteva trattarsi. Appena prima di cadere realizzaì che quella carbonara doveva essere risultata indigesta a qualcuno e mi chiesi se fossi stato davvero coraggioso a sfidare le autorità, se davvero meritassi di oltrepassare il varco tanto temuto solo per aver fatto a modo mio. O magari si era trattato soltanto di una maldestra insolenza! Dovevo aver compiuto qualcosa di ben più grave, anche se non lo rammentavo. Il mio carnefice, dal viso vissuto, maturo e famigliare, mi lesse nel pensiero e mi rispose che stavo morendo non per volere della capitale e per il disprezzo delle tradizioni ma bensì perché un affronto lo avevo commesso, sì, ma ai suoi danni: era stato proprio lui, mesi prima, ad inventare la Carbonara Gialloverde e non avrebbe permesso ad altri di riconoscerne la paternità. Ciò che il buon Peppino ignorava in quel momento era che il suo piatto sarebbe in seguito divenuto celebre, suo malgrado, proprio sotto tale disonorabile denominazione donandogli una fama non più gradita. L’ultima sonora risata, da quaggiù, sarebbe stata la mia.

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