Berlinale

Cronaca di un viaggio alla berlinale

La cinepatia, patologia che si manifesta di sovente e in maniera acuta ogni qual volta la parola Festival giunga alle orecchie del malcapitato che da essa è irrimediabilmente affetto, non lascia scampo alcuno a codesto esemplare di animale da proiezione. Egli sembra essere totalmente vittima di quella sorta di frenesia incondizionata che lo pervade nel momento in cui il programma della manifestazione viene annunciato: noto anche come caos in forma cartacea, esso è un labirinto che solo la combo costituita da penna e agenda può rendere meno tortuoso e pieno di false piste.

Una volta giunto in loco, egli non impiegherà molto tempo a selezionare dall’ambiente circostante solo le caratteristiche utili alla sopravvivenza e alla soddisfazione del suo bisogno di accumulo di visioni: in primis collocazione geografica delle biglietterie e delle sale cinematografiche presenti, solo in secondo luogo quella dei bagni ed eventuali punti di ristoro (tanto per chiarire quali siano i bisogni primari).

Definite tali premesse, cosa potrà mai passare per la testa del Nostro, il quale peraltro svela in questo preciso istante il trucco e si rivela essere egli stesso la voce narrante e disvelatrice della sua dipendenza da eventi cinematografici, quando si rende conto che la 68a edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino è alle porte? La risposta è molto semplice e, visti i tempi che corrono, prende la forma di un hashtag: #Berlinale68whynot?

È infatti questo il mantra che mi ripeto quando, reduce dalla Festa Del Cinema di Roma in ottobre e dal 35esimo Torino Film Festival in novembre mi armo della ferma convinzione che per impedirmi di presenziare a questa Berlinale ci voglia Ben Affleck, decido di prendere con filosofia i disguidi della procedura di accredito che mi impediscono di ottenere l’agognato badge e mi preparo così alla dura vita del cinefilo turista, consapevole delle insidie di un Festival che più di ogni altro, forse, si distingue per l’eterogeneità della proposta filmica, per lo sconsiderato numero di sezioni componenti il programma e per l’elevato numero di sale fra cui fare ping pong.

Essendo questi alcuni fra i dettagli egregiamente esplicati qui, arrivo nella capitale tedesca avendo già le idee piuttosto chiare, pronto a sgomitare per ottenere i biglietti più ambiti: Wes Anderson, Gus Van Sant, Steve Soderbergh, Kim Ki Duk sono forse i nomi dei cineasti più noti presenti in gara, tuttavia la Berlinale è anche molto altro.

Essa vive proprio delle sue insite idiosincrasie, dunque spazio ad eventuali azzardi, sorprese, delusioni tutte ben prevedibili in un marasma audiovisivo in cui perdersi può essere meraviglioso ma anche un po’ pericoloso, specie per un portafoglio critico verso quegli esborsi che possano col senno di poi venir giudicati evitabili.

Poi c’è Berlino: Berlino e il suo policentrismo, la sua commistione di vecchio e nuovo, il suo richiamo suggestivo di storia e di cultura cui giorno dopo giorno si fa sempre più difficile resistere e dire no, e allora anche il cinepatico che c’è in me trova una sua cura temporanea e decide che sì, il doppio colpo Berlino+Berlinale può fare decisamente al caso suo. Decide che non vivrà esclusivamente di proiezioni e di red carpet e che userà a suo vantaggio le impressioni raccolte dai suoi simili durante le lunghe code di attesa per facilitare ancora di più la selezione dei film da non perdere.

Ciò nonostante, non tutto va secondo i piani, bisogna dirlo: nel corso della mia permanenza non mi riesce comunque di vedere Las Herederas di Marcelo Martinessi (primo film paraguayano mai presentato ad un Festival) e Dovlatov (film russo di Alexey German Jr. basato sulla vita dell’omonimo scrittore), entrambi inizialmente snobbati dal sottoscritto e lodati invece da chiunque; lo stesso sembra accadere per Transit di Christian Petzold, film tedesco che quindi gioca in casa e i cui biglietti svaniscono in men che non si dica.

Mai rassegnarsi però: dopo un tentativo, dopo due tentativi, inizia a serpeggiare in me la quasi certezza che l’ultima parola non è mai detta e che ogni tabellone indicante la scritta sold out è in realtà un abile mentitore. Da quel momento in poi, andare appositamente a elemosinare biglietti last minute da un cinema all’altro, rigorosamente a metà prezzo, diventa pratica efficace ed efficiente dal momento che le sale, persino quella lussuosa del Berlinale Palast, sembrano attendere proprio me con dei posti liberi centralissimi.

Con questo sistema, riesco ad assistere alle proiezioni di molti dei film facenti parte della competizione ufficiale fra cui Eva di Benoit Jacquot, Damsel dei fratelli Zellner, 7 Days In Entebbe di Josè Padilha, The Real Estate degli svedesi Petersén e Mansson.

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Nessun titolo di questa mini lista colpisce nel segno nonostante le coppie di attori dei primi tre (rispettivamente I.Huppert-G.Ulliel, R.Pattinson-M.Wasikowska, D.Bruhl-R.Pike) e qualche buono spunto che viene però dissipato da una sciatteria complessiva che copre le tinte thriller-erotiche del primo, vanifica le velleità parodistiche del western nel secondo, genera semplicemente un certo disinteresse nel film di Padilha che vorrebbe trattare delle psicologie degli attori in gioco nel conflitto israelo-palestinese mostrando il lato umano dei terroristi. Poco da dire per il film scandinavo, se non che restano misteriose le ragioni di tanta attenzione e di un così largo spazio con tanto di passerella e prima visione serale al Palast quando poi si assiste ad una pellicola così scadente.

Precedente a queste visioni vi è stata però la lunga cerimonia di apertura del Festival che ha visto protagonista Wes Anderson, ormai fedele alla Berlinale quasi più che alla sua sempre più folta ciurma di attori capitanati da Bill Murray, comunque tutti presenti sul red carpet per presentare Isle Of Dogs, splendido lungometraggio di animazione in stop-motion che vede l’utilizzo delle loro riconoscibili voci.

Ognuno ha i suoi idoli, ci mancherebbe altro, ma se per il sottoscritto l’emozione di vedere Murray è difficilmente descrivibile a parole (purtroppo lo stralunato interprete non si è molto soffermato con i fan accorsi in passerella) e per altri è Bryan Cranston a suscitare lo stesso effetto, sorprende e un po’ commuove vedere come addirittura vi sia un accanito fan di Jeff Goldblum munito di uovo di Velociraptor appena dischiuso e pronto per l’autografo del fu Professor Malcolm di Jurassic Park, il quale ignora però tal richiesta causando un urlato e riecheggiante “Mr. Goooooldbluuuuum pleaseeee!” che immaginerei ora come infallibile sveglia mattutina. La consolazione di non aver avuto un mio personale momento con Bill Murray arriva invece quando ripenso al fatto di aver comunque assistito dal vivo a questa scena.

Bill Murray on the drum @ Berlinale Opening 2018: https://www.youtube.com/watch?v=nX8K1BWCOiM

Poi però mi rendo conto che no, non mi basta: avremmo dovuto avere almeno una foto insieme in cui giocavamo a fare la gara a chi aveva lo sguardo più malinconico, pensiero che mi genera una malinconia la quale, per l’appunto, mi spinge a procedere da solo con una sequela di sguardi (indovinate un po’) malinconici nei giorni seguenti.

Come se Isle Of Dogs non fosse già l’ennesimo gran film del regista di Houston (ma badate bene, non il migliore come probabilmente sentirete dire all’uscita nelle sale italiane a maggio), esso vanta anche una creativa campagna promozionale la cui originalità è ben visibile passeggiando in città.

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A questo punto, la competizione ufficiale non sta dando troppe soddisfazioni e non si può dire che nella Berlinale la cosa non sia un po’ prevedibile, specie in una nota fase di transizione come quella attuale che vedrà l’addio del COA e Direttore Artistico Dieter Kosslick al termine della prossima edizione. Decido allora di sondare la sezione Panorama e in una sola occasione la sezione Forum, le quali mi regalano effettivamente visioni orientali difficilmente dimenticabili in senso ambivalente: Human, Space, Time, Human di Kim Ki Duk è un ambizioso film carico di simbolismi e metafore che potrebbe ricordare in alcuni intenti il recente Mother! aronofskiano con le dovute differenze stilistiche fra i due autori, ma comunque di difficile digestione e a detta di molti non al livello dei migliori episodi della carriera del sud-coreano; River’s Edge di Isao Yukisada è una piacevole sorpresa e tratta il disagio di una generazione di giovani alla ricerca di sé stessi nel Giappone nel 1994; Grass, fra i più chiacchierati al Festival, è un evanescente delirio del prolifico Hong Sangsoo in cui le conversazioni fra i personaggi (reali o immaginati poco importa) annullano totalmente ogni possibile presenza di tensione narrativa e allo spettatore non rimane che stordirsi con i volutamente urticanti contrappunti di musica classica.

Con tutti quei film visti a metà prezzo mi dico che il Fattore C è stato finora dalla mia parte ma quando lo faccio non posso minimamente immaginare che nel giorno stesso in cui la U-Bahn e la S-Bahn sembrino aver una voglia matta di farmi sbagliare continuamente direzione un tizio, corpulento e dai tratti asiatici ma comunque in definitiva anonimo, decida per qualche strano motivo di fare il buon samaritano di turno e di regalare proprio a me il biglietto di ingresso all’incontro con Gus Van Sant al quale non sarei mai e poi mai entrato (e dire che con il regista di Elephant ci eravamo già incontrati di recente e rivedere gli amici è sempre un piacere).

Il suo film, Don’t Worry He Won’t Get Far On Foot ho modo di vederlo solo nel mio ultimo giorno di Berlinale, giorno che si fa ricordare per la qualità delle pellicole, per il leitmotiv della tosse prolungata dei presenti in sala che per poco non dà vita a improvvisazioni concertistiche (sì, settimana freddina nella capitale) e perché realizzo che in 7 giorni all’Arkaden (centro commerciale che si trasforma per l’occasione nella base della Berlinale a Potsdamer Platz) sono riuscito sempre, e dico sempre, a tirare le porte di ingresso quando c’era da spingerle e a spingerle quando c’era da tirarle, roba da rimanerci male in caso di inaspettato successo.

Lasciando da parte questi dettagli, è bene dire che Van Sant mette d’accordo praticamente tutti con questo biopic che miracolosamente non scivola nel patetismo (il grande Joaquin Phoenix interpreta Joe Callahan, vignettista alcolizzato e tetraplegico) proprio perché il regista di Portland sa come trattare la materia e opta con sagacia per un montaggio che mischia diversi archi temporali donando frizzantezza e vigore ad un soggetto che poteva perdere velocemente di interesse.

Non è finita qui, perché a questa visione mattutina riesco ad abbinare quella insperata e inattesa di Transit: esatto, proprio lui, il film che davo ormai per perso. Mi metto in coda senza biglietto come tanti e di nuovo senza ragione alcuna riesco a farcela perché da un momento all’altro ricompaiono dal nulla alcuni biglietti, anche a scapito di un paio di ragazzi che non ci speravano più e che prima di andare via mi rivelano che “no, Transit sarà anche tedesco, sarà anche un gran film, ma qui alla Berlinale amano far vincere il solito film rumeno di merda”. Ehm… A questo punto urge chiedere a voi lettori: siete al corrente di come è andata poi, sì?

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Anche senza Orso D’Oro il film di Petzold rimane comunque il mio grande amore di questa Berlinale, un film che da solo sarebbe valso tutto questo profluvio berlinese di cui state ancor leggendo. Un film in cui Marsiglia diventa terreno di eterno transito, per l’appunto, uno spazio al quale si tenta perennemente di sfuggire e che si fa portatore di traumi forse passati, forse futuri, in qualche modo presenti nel rendere i personaggi dei fantasmi senza meta, destinati ad un moto errante lungo la Road To Nowhere evocata dai Talking Heads nei titoli di coda che lasciano sospesi nell’attesa i tratti sbilenchi dell’eccezionale Franz Rogowski.

Non è però ancora il momento di dire arrivederci a Berlino: manca ancora la zampata finale, la quale viene data dal thriller psicologico di Steven Soderbergh, l’uomo dei finti ritiri, l’uomo della perenne sperimentazione di generi, stili, modalità di riprese. Unsane è girato con un I-Phone (sì, proprio così) e il regista ammette che “la curiosità è tanta soprattutto perché non credo che rivedrete mai questo film su uno schermo così grande”. Si spengono le luci e inizia un film teso, serrato, ovviamente diretto in maniera egregia e al quale viene sinceramente difficile fare le pulci e facile applaudire per la dimestichezza con cui Soderbergh ci fa dimenticare dei limitati mezzi tecnici, i quali diventano al contrario una risorsa a suo favore nel generare suspense.

La mattina seguente mi avvio alla ripartenza con qualche altro piccolo rimpianto oltre zio Bill, come ad esempio non essere riuscito a vedere nessuno dei film italiani presenti (tuttavia di Figlia Mia di Laura Bispuri si è parlato abbastanza male), non aver avuto spazio ad altre perle nascoste sicuramente presenti in Panorama e Forum, aver compiuto la scelta di rinunciare ad un’esperienza che si preannunciava unica come quella di vedere un film di Lav Diaz al cinema: con soli (si far per dire) 234′ il Season Of The Devil del cineasta filippino ha stuzzicato il mio palato cinefilo fino all’ultimo. Poi ha perso la sfida con Berlino e con la possibilità di avere 4 ore libere per gironzolare, sebbene io ammetta che 4 ore di inquadrature statiche di un musical (!) filippino, specie se rinominato da alcuni geni del male Lav Lav Land, potessero avere un perché in questa cornice.

Arriva dunque il momento di ragionare su come scrivere questo pezzo e improvvisamente mi ricordo che vi è una parte mancante della storia, breve ma emotivamente significativa, nella quale parlo dell’Abruzzo con Willem Dafoe nella sera del suo Orso D’Oro alla carriera e ricevo un affettuoso buffetto da Wim Wenders. Se non è Il Cielo Sopra Berlino poco ci manca.

Auf Wiedersehen.

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