La conquista dell’Orso D’Argento per la migliore sceneggiatura ha fatto sì che si parlasse tanto (e bene) de La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi, specie nei giorni che hanno seguito la 69a edizione del Festival Del Cinema Di Berlino in cui vi partecipava come unico film italiano in concorso. La spedizione tricolore inviata a prendere parte all’immenso e composito programma berlinalesco era tuttavia piuttosto corposa, nonché sparpagliata nella consueta miriade di sezioni differenti. L’esaustività e la completezza sono propositi da accantonare per chiunque voglia avventurarsi nei meandri di Generation e Forum (notoriamente i programmi più sperimentali), motivo per cui Ambessa (di Mo Scarpelli) e Gli ultimi a vederli vivere (di Sara Summa) hanno pagato forse qualcosa a livello di visibilità. Più di richiamo era invece la sezione Panorama, spazio più indirizzato ai film d’autore indipendenti e dalle tematiche spesso controverse o poco convenzionali. Sono ben 4 i film italiani presenti nella lunga lista di pellicole selezionate per la 40a edizione di questo programma: Flesh Out di Michela Occhipinti, Normal di Adele Tulli, Dafne di Federico Bondi e Selfie di Agostino Ferrente.
Facendo da ponte fra un festival e un altro, sono gli ultimi due film appena citati ad interessarci maggiormente in questa sede. Sia Dafne che Selfie sono infatti stati selezionati per far parte del programma del Sottodiciotto Film Festival & Campus, organizzato da Aiace Torino e Città di Torino e giunto alla sua imminente 20a edizione, la quale si svolgerà dal 15 al 22 marzo.
Il film di apertura designato è appunto Dafne, reduce dalla vittoria del premio Fipresci (Federazione Internazionale Della Stampa Cinematografica) in quel di Berlino. Il film fa segnare il ritorno a un lungometraggio di finzione da parte di Federico Bondi a distanza di ben undici anni da Mar Nero. La vicenda in questione vede protagonista una trentacinquenne ragazza con la sindrome di Down che si trova a dover fronteggiare il lutto causato dall’improvvisa morte della madre e le difficoltà derivanti dalla depressione del padre Luigi. Rimasta sola con lui, Dafne dovrà occuparsene e fargli quasi da madre in un capovolgimento di ruoli del tutto inatteso che li riavvicinerà lungo un sentiero da percorrere tutto rigorosamente a piedi. La scelta del titolo non è casuale, essendo questo progetto del tutto focalizzato su Dafne e sulla sua interprete Carolina Raspanti. Figure speculari, quasi del tutto coincidenti nel loro carattere espansivo e ottimista, Dafne e Carolina colpiscono nel segno per via di quell’ingenuità che le priva di peli sulla lingua e che fa da contraltare ad un’indomita determinatezza. La sindrome di Down viene dipinta non come un problema, come una causa di stigmatizzazioni o come fonte di impedimenti nei rapporti interpersonali. Al contrario, essa non è nulla di più di una condizione peculiare come tante altre, al punto tale da finire sullo sfondo e non costituire affatto il tema del film. Non appena si accorge che con l’esuberanza positiva con cui si pone (ora con umorismo, ora con sensibilità) Dafne/Carolina è capace di trainare un film intero e stare un passo avanti e non uno indietro, lo spettatore si libera dei timori legati alle tematiche potenzialmente affliggenti abbandonandosi ad una pellicola che risulta convincente proprio perché non pare costruita. Bondi lavora proprio in tal senso, cercando di modellare il film assecondando la verve della protagonista e non edulcorandone i lati meno gradevoli e talvolta sgarbati che emergono dal suo essere senza filtri. Abile nel gioco degli opposti dato dalla figura di un padre stanco, spento e bisognoso di sostegno (un Antonio Piovanelli in sottrazione), con un approccio a tratti documentaristico il regista toscano sta sempre vicino al quotidiano di Dafne, non teme lo scarnificarsi della trama e ci conquista con la sentita e malinconica trovata del finale.
Selfie di Agostino Ferrente è invece un documentario ambientato nel Rione Traiano di Napoli che nasce dalla volontà da parte del regista di raccontare il contesto difficile nel quale un ragazzo di sedici anni, Davide Bifolco, perse la vita nel settembre del 2014. In sella al suo motorino, Davide viene scambiato per un latitante e cade vittima di un proiettile sparato da un carabiniere. Da questo tragico preambolo scaturisce poi la vicenda raccontata nel 2018 e che ha come protagonisti Alessandro e Pietro, due giovanissimi lavoratori legati a Davide da una profonda amicizia e scelti dal regista come mediatori di una realtà troppo spesso dipinta univocamente come vittima della criminalità. La quotidianità di Alessandro e Pietro viene allora mostrata attraverso la modalità del selfie, dell’auto-figurazione di sé scaturita da un semplice smartphone. Dotati della possibilità di dire la loro in prima persona per via di uno strumento così maneggevole e oramai così famigliare per le loro generazioni, i due ragazzi diventano autori via via più consapevoli del ritratto che stanno offrendo, arrivando anche a interrogarsi sul mezzo filmico stesso e su cosa debba essere mostrato e cosa no, ben consci che l’immagine di noi stessi e del contesto in cui viviamo condiziona sensibilmente le possibilità a nostra disposizione. Intervallato da riprese tratte da telecamere di sorveglianza e dai provini effettuati dal regista, Selfie concretizza l’intento di minare gli stereotipi consolidati (ironicamente proprio quando il pur bel film di Giovannesi va suo malgrado nella direzione opposta) senza per questo cadere nella tentazione della retorica svilente. I volti di Alessandro, Pietro e di tutti i ragazzi coinvolti nelle riprese diventano dunque dei simboli di una contro-rappresentazione tesa a mostrare come i loro luoghi di provenienza, pur svolgendo una funzione molto più importante del semplice sfondo già solo nella dimensione dell’inquadratura (da notare come i soggetti si mettano quasi sempre a lato di essa), non debbano causarne pregiudizi di sorta. Un autoritratto che sembra calzare a pennello col tema “Me, Myself and I” che caratterizza questa edizione di Sottodiciotto.