“Aveva a che fare con un qualcosa che sta in un altro mondo e che non potrà tornare più. I personaggi più importanti della mitologia sono stati due: Apollo e Dioniso. Apollo era la razionalità e Dioniso era l’emozione. Chi ha conosciuto Maradona sa che era la schifezza di Apollo, il massimo di Dioniso” (Luciano De Crescenzo)
Non bisognava appartenere necessariamente alla folta platea di adoratori del futebol per rendersi conto che la morte di Diego Armando Maradona, avvenuta un anno esatto fa, potesse generare quel tipo di cordoglio che si dedica alle icone per eccellenza, ai miti, a coloro i quali con le loro gesta hanno saputo travalicare la dimensione dell’ordinario per toccare quella dello straordinario, dell’incommensurabile.
Da quell’amaro 25 novembre del 2020 abbiamo infatti assistito all’elaborazione collettiva di un sentimento su cui si è scritto, riflettuto e a cui si è cercato forse invano di dare un nome. Non li abbiamo mai incontrati i nostri idoli, non ci è permesso un contatto diretto con loro; anche per questo ne conserviamo gelosamente un’immagine idealizzata.
Se all’atroce incombenza della perdita degli affetti dei cari ci si vorrebbe ovviamente sottrarre, si viene comunque colti prima o poi dalla consapevolezza che tale passaggio sia una delle regole del gioco nel quale siamo invischiati noi tutti. Ma al mito, no, ad esso non siamo per niente preparati a rinunciare: esso si staglia sullo sfondo della nostra storia individuale suggerendone le traiettorie, diventando parte contestuale, veicolo e fonte d’ispirazione perché capace di ragguagliare concretamente la nostra dimensione terrena e al contempo un orizzonte che sta altrove. Se di miti si tratta, allora come è possibile che muoiano? Da qui lo sconcerto.
Inattesa la morte di Maradona non lo è stata del tutto, bisogna dirlo. Eppure ci si era consciamente illusi che a scansarla così tante volte, poi con la mietitrice si potesse riuscire quasi ad instaurare una specie di patto a lunga scadenza, e tutto ciò è pienamente parte del contesto mitologico di cui si tenterà di definire i parametri.
A decesso constatato, l’avvicendarsi fra l’uomo Diego Armando e l’icona Maradona, un connubio irriducibile che costituisce forse il motivo di fascino più autentico del caso in questione, si trova di fronte ad un momento di possibile risoluzione, di svolta irreversibile: al netto delle speculazioni di chi vorrebbe screditarne la persona rimestando nel privato o denunciandone le scorrettezze, si tenderebbe a pensare che in questi casi sia proprio il dato umano a soccombere in favore di quello divino.
All’ultimo atto, sembrerebbe essere il trapasso fisico l’incaricato a mettere fine una volta per tutta le debolezze, i fallimenti, le idiosincrasie per riconsegnare in via definitiva il Dio alla sua dimensione purificata di appartenenza.
Se questo accadesse, si farebbe un torto alla complessità della figura di Maradona, la quale è ascesa meritatamente allo status mitologico proprio in nome di tutte le sue contraddizioni. E allora, lungi dall’essere metabolizzato, quel dolore così sentito e così intimo di cui si accennava sopra rivela una ricaduta del tutto trasversale, come se a conti fatti le distinzioni fra il basso e l’alto, fra ceti sociali e culturali così distanti, potessero venire annullate in un colpo solo (magari un tacco, o una rabona) da quell’epifania continua rappresentata dai giochi di prestigio del Pibe De Oro.
A pensarci bene, agli occhi del calciofilo scafato o dello studioso (ce lo immaginiamo di antropologia o di semiotica) più attento e meticoloso che può essersi interessato allo scomponimento della pratica maradoniana, all’analisi della sua performance sul manto erboso (suo domicilio naturale forse da prima ancora di potervi saggiare gli scarpini), nemmeno il gol in sé può ritenersi sanzione suprema, metro di giudizio consueto e insindacabile nei riguardi di un calciatore d’attacco.
Benintesi, ne ha fatti non pochi di gol Maradona, e in tutti i modi pensabili e impensabili. Inizia col segnarne più di 100 negli anni degli esordi (post)adolescenziali con la maglia dell’Argentinos Juniors, va in doppia cifra stagionale in tutte le annate disputate fra Boca Juniors, Barcellona e Napoli e con la maglia azzurra diventa per una volta anche capocannoniere in Serie A. Poi, ovviamente, c’è l’albiceleste che rappresenta un caso a parte, laddove in una sola partita e con la maglia della propria nazionale si può riuscire a combinare in una manciata di minuti la sregolatezza al genio, l’irriverenza con la fame di rivalsa, la fuoriuscita dagli schemi e la rottura delle regole consentite dal gioco (il gol di mano) con la presa in consegna e usufrutto supremo di quelle regole stesse, il gesto massimo di norma consentito eppure non umanamente preventivabile: il gol del secolo.
Eppure non basta, non è tutto. Di ciò che resta e costituisce la grammatica maradoniana, le finte ubriacanti, gli scatti felpati, i dribbling stretti, le assistenze fulminanti, di ciò si può trovar traccia in tutte le fasi dell’ascesa e della caduta dell’uomo e insieme del mito: il prima, il durante e persino il dopo (dove per dopo facciamo qui riferimento alle singhiozzanti apparizioni post-napoletane, pressoché ignorate dalle grandi narrazioni sul Pibe). Quando della verve realizzativa non c’è quasi più traccia, la posizione in campo arretra e il gesto può quasi lasciar scorrere in secondo piano il suo finalismo per sprigionare un piacere forse ancora più grande.
La permanenza del talento, il dato concreto e invariante che resta, che non si estingue, radicale e radicato a tal punto che nulla può minarne le fondamenta, nemmeno il progressivo appesantirsi, la scure depressiva, la dama bianca che prima dà e poi chiede indietro tutto (e molto di più).
Quei virtuosismi, privati come per ossimoro dei fronzoli propri dei giocolieri, con Maradona divengono immediati, efficaci e dunque sensati, esecuzioni di uno spartito esistente ma invisibile ai nostri occhi e di cui piace immaginare che tutti abbiano goduto (dichiaratamente o di nascosto, con tifo a favore o avverso) innumerevoli volte nella propria vita, dal vivo o tramite filmati che a posteriori rivestiranno ancor di più un ruolo determinante per salvaguardare il lascito sportivo e mitologico del Pibe.
Ci si sta girando un po’ intorno ma ormai dovrebbe essere lampante: per parlare di un uomo fuori dal comune, di un semi-Dio come lo è stato Maradona, non si può non tirare in ballo la dimensione narrativa dei testi e dei media che hanno provato a raccontarne le peculiarità. È proprio questa ad aggregare la componente mitica, a donarle struttura; giocoforza, il mito non può disfarsene pena il non potersi definire più tale.
Essendo ormai lontano il tramandarsi orale delle grandi epopee classiche, nell’epoca della società di massa e dei consumi, un’epoca mediatica e globalizzata, si ascende al cosmo tramite la pervasività, l’onnipresenza mediale della propria immagine e delle proprie gesta. Diego Armando Maradona mette fisicamente piede in campo la domenica e, al contempo, accede simbolicamente nelle case della gente comune, degli appassionati e dei tifosi perché entra nei loro televisori, riveste i loro rotocalchi, pullula e alimenta i loro sogni.
Esplicativi sono, in tal senso, degli esempi riguardanti opere che nemmeno pongono Maradona al centro della propria trattazione (a quelle arriveremo in seguito) ma ne mostrano la capacità di influenzare individui e contesti attraverso la circolazione della propria immagine e la potenza delle proprie gesta sacrali.
Maradona’s Legs, ad esempio, racconta la storia di due bambini palestinesi impegnati nella ricerca de “le gambe di Maradona”, l’unica figurina mancante per completare l’album di Italia ‘90 mentre attorno a loro la prima intifada incombe. Essendogli negate l’appartenenza territoriale e la spensieratezza della propria età, ai due protagonisti non resta che sondare la sfera della fantasia per provare a immaginare un futuro lontano. Maradona (qui simbolicamente spezzato in due, come a rappresentare la frattura fra dato concreto e potenziale) riveste il ruolo di manifesto di tale speranza di evasione.
Allo stesso modo, Paolo Sorrentino parte dal dato autobiografico per costruire attorno a Maradona la rievocazione della sua adolescenza e di come essa sia stata totalmente scombussolata dall’arrivo a Napoli del calciatore, evento sognato e posticipato a tal punto da non ritenere veritiera la sua venuta. In È Stata La Mano Di Dio il regista partenopeo racconta in modo sublime e inarrivabile la vivacità del mito, la sua capacità di orientare le pratiche comunitarie e costituirne di nuove, la sfera parareligiosa che attornia la figura di Maradona. Non solo capace di effettuare miracoli sul rettangolo di gioco, in questo film (e nella vita vera) il Pibe De Oro influenza con la sua sola presenza in un dato tempo e luogo (il San Paolo) l’orizzonte di possibilità del protagonista e salvandogli la vita estende il raggio d’azione del proprio intervento divino.
Questo aspetto ricettivo e comunitario del mito arricchisce e sfuma ulteriormente le connotazioni in gioco: dove il Dio sta in cielo, Maradona sta in terra, o sul campo o per le strade, quelle stesse strade su cui ha mosso i primi passi. «Non mi serve la protezione della polizia per camminare per strada, la gente mi ama e io amo la gente» dichiara in un’intervista durante gli anni a Napoli. Egli è allora Divo nella misura in cui è colui che sì, è toccato dal divino ma è anche, per quanto non tangibile, quantomeno da noi avvicinabile perché parte del nostro quotidiano, tanto parzialmente Dio quanto parzialmente uomo. Vi è un Maradona pubblico e un Maradona privato, un Maradona diurno, trasparente sotto la luce del sole, e un Maradona notturno che deve celarsi dagli occhi indiscreti che vorrebbero svelarne i vizi, gli scandali e carpirne tutti i segreti.
Si prenda Pelé come controesempio: per quanto il campione brasiliano operi un’operazione consapevole e non certo trascurabile di autogestione del proprio impianto divistico quando decide di terminare la carriera trasferendosi al Cosmos, assurgere ad ambasciatore del calcio negli States e diventare persino attore-calciatore per John Huston in Victory (1981), egli trascorre comunque la quasi totalità della propria attività agonistica in Brasile.
Resistendo alle lusinghe del vecchio continente Pelè impedisce in definitiva alla propria immagine di sconfinare, dal momento che in assenza di una sostanziale copertura televisiva ancora là da venire, anche gli accecanti bagliori dei tre mondiali vinti tutt’oggi hanno un riscontro visivo modesto e incompleto. Si conserva così una componente di miticità arcaica che quasi si nutre della privazione di sé, neanche ci fosse Lenny Belardo a suggerirne le mosse: più di 1000 le reti realizzate in carriera, non sufficientemente numerosi i documenti disponibili necessari a tramandarne la grandezza e l’inscalfibilità mitologica. Se questa resiste, è per la forte tradizione solidificatasi nel tempo, tuttavia sembra comunque mostrare le crepe di fronte a quel “se non vedo non credo” tipico di un’era che si illude di poter fare totale affidamento sul proliferare delle immagini.
Di converso, Maradona possiede invece tutte le credenziali per rivestire il ruolo di mito contemporaneo massificato per eccellenza, sembra quasi che la sua storia sia stata scritta da uno sceneggiatore cinematografico tanto risulta esemplare ed efficace nel suo svilupparsi.
La micronarrazione che si sedimenta fin dai primi passi è evidentemente quella dell’enfant prodige: nonostante nulla ci vieti di pensare che Diego trascorresse ore ed ore ad allenarsi e anzi, è più che plausibile che questo avvenisse (come è plausibile che Mozart si esercitasse al pianoforte), è più forte cedere alla tentazione che fa prevalere il dono divino all’etica del sacrificio e della dedizione.
Come se non bastasse, la capacità di Maradona di esercitare la propria superiorità sul terreno di gioco anche (se non soprattutto) nel bel mezzo del suo percorso autodistruttivo di dipendenza dalla cocaina, si può leggere a posteriori come una specie di continuo e malsano gioco al rialzo. Toccato dalla divinità ogni volta che scende in campo, l’uomo pensa illegittimamente di essere in controllo di una partita più grande fuori dal campo, credendo di poter guardare a muso duro e dalla stessa altezza forze in realtà ingovernabili che ne generano a proprio piacimento l’ascesa e la caduta.
Al contrario della superficialità e della malafede di chi associò l’abuso di cocaina alla qualità delle prestazioni sportive, Maradona è stato Maradona nonostante la cocaina, non certo grazie ad essa. Come dice egli stesso a Emir Kusturica, «Emir, sai che giocatore sarei stato se non avessi tirato la cocaina? Che giocatore ci siamo persi!». Chiamando impropriamente in causa lo spauracchio più temuto dal mito sportivo, ovvero il doping, i vili cercano l’unica giustificazione razionale contro l’evidenza impossibile di un’umanità che trascende sé stessa.
La televisione, la carta stampata e il tramandare orale di leggende urbane tanto assurde quanto affascinanti alimentano l’aura di Maradona e arrivano prima del cinema a plasmare il mito. Macchina mitopoietica per eccellenza, la settima arte rispetto a questi canali non possiede la tempestività e il gusto per l’indiscrezione della stampa, la quotidianità abitudinaria delle chiacchiere televisive, né può più tanto vantarsi di una sospensione dell’incredulità sempre più a rischio nell’era della disillusione imperante. Il cinema narrativo e finzionale per antonomasia lavora con tempi differenti.
Esso più solitamente può rivolgersi all’analisi, alla rielaborazione critica o poetica di un qualcosa che fu ma che ha smesso (o è in procinto) di essere; molto difficilmente potrà tentare il tackle su eventi recenti o che ancora permeano il presente, a meno che le contingenze non si autoimplichino espressivamente (si pensi al dopoguerra e al neorealismo). Potrebbero essere casi sparuti come The Social Network, Grazie A Dio e Sulla Mia Pelle a rivestire il ruolo di anomalie interessanti: nel loro teorizzare (in maniera più o meno efficace) un cinema di inchiesta in corso d’opera, questi film contribuiscono al dibattito o stimolano un’azione sociale adoperando gli strumenti della fiction più che quelli dell’inchiesta documentaristica.
Questa dialettica fra stilemi finzionali e documentaristici, la quale è alla base dei discorsi sullo stato nella narrativa audiovisiva in sé, diventa centrale anche nel caso dei miti contemporanei e più in particolare della loro declinazione sportiva. Sovente questi racconti, laddove hanno una qualche pretesa di incidenza artistica o socioculturale, giungono dunque quando il mito è sulla fase del tramonto e sorge la necessità di ravvivarlo (si rifletta anche sulla strategia che riguarda The Last Dance, una serie televisiva uscita a più di vent’anni dal filmare del materiale di repertorio, come se Michael Jordan volesse ribadire chi è il vero Re di fronte alle nuove leve che ne insidiano il trono).
Il cinema arriva dunque a occuparsi del mito di Maradona quando gli avvenimenti che ne hanno costellato la vita e la carriera lo hanno portato ad un lento declino, fra ritorni in campo mai concretizzati in rinascite sportive effettive, il difficilissimo smaltimento delle dipendenze e una serie di nuove incarnazioni (presentatore televisivo, allenatore della nazionale e in ultimo anche di club) anch’esse rimaste a metà.
Se è vero che per il mito sportivo è il ritiro dall’attività agonistica a suggellare uno spartiacque fra un apice di gloria e un pedice che vede nell’oblio il maggiore rischio, Maradona di ciò costituisce un esempio perfetto proprio perché al di là dell’affetto umano nutrito per l’uomo, si ha la sensazione che una prima morte (quasi più significativa a livello simbolico di quella effettiva) Diego l’avesse già abbracciata nel momento del suo arresto per possesso di cocaina a Buenos Aires, nel 1991.
Quando esce Maradona – La Mano De Dios di Marco Risi, il primo film su Maradona, è il 2007: Risi, autore in passato di passaggi fin troppo trascurati di un cinema italiano di impegno a fine anni ottanta, sente sicuramente il senso di responsabilità dell’affrontare la biografia di un personaggio così controverso e amato, cosa che pare schiacciare ogni pretesa di grandezza dell’operazione. Come purtroppo spesso avviene, la strada del biopic tradizionale si dimostra essere non la più efficace per raccontare una verità così potente come quella raccontata da chi l’ha vissuta, questo perché in questo caso mancano anche idee visive sufficientemente stimolanti per tradurre adeguatamente la realtà in racconto.
La devozione di Risi si traduce in banalità e soprattutto va a limare gli spigolature del personaggio meno quella della tossicodipendenza, utile a rappresentare un declino talmente letterale da scadere nel simbolismo più pacchiano. Il film si chiude fra un flashback d’infanzia e una dedica che a suo tempo voleva fungere da buon auspicio e che dona al lungometraggio un tono consolatorio che non può far altro che stonare. Più interessante da un punto di vista critico è la scelta di sottrarsi dichiaratamente dal ri-mettere in scena ciò che non sarebbe possibile rievocare con la stessa pregnanza. Il gesto tecnico, il miracolo calcistico diventano allora inserti realistici più fantasiosi di qualsiasi altra fiction.
Per quanto La Mano De Dios sia stato pressoché dimenticato e non abbia minimamente rappresentato un successo anche dal punto di vista della ricezione al botteghino, inaspettatamente è la recentissima serie Maradona – Sogno Benedetto (2021) a crearvi un potenziale ponte di collegamento. Pur non riguardando strettamente il cinema ma bensì un prodotto da piattaforma che ha più a che fare con la televisione, essa rappresenta l’unico altro esemplare di opera su Maradona che aderisce al regime della finzione.
Come per Risi, la serie opera la medesima scelta di campo sul Maradona calciatore, ovvero quella di non metterci proprio le mani ed evitare quella che potrebbe essere vista come una profanazione. Quello atletico e performativo sembra rivelarsi un re-enactment impossibile solo da concepire: l’unica forma mentis possibile è quella di rasentare la perfezione scenografica e costumistica e lasciare poi spazio alle immagini dal vero dove la messa in scena non può più arrivare, con l’utilizzo dei titoli di coda a mo’ di supporto documentale che segnala che ciò che abbiamo visto in versione romanzata è comunque frutto di una ricerca che vorrebbe mettere esibire la fedeltà e la cura nei verso le fonti (ma nonostante ciò, a Napoli hanno già avuto parecchio da ridire).
Pur senza raggiungere chissà quali vette artistiche, Sogno Benedetto si inserisce perfettamente nel suo tempo dimostrando un gran dispendio di energie produttive indirizzate verso una serie che, per definizione, può concedersi il lusso di dilatarsi lungo un arco molto esteso, giocare più efficacemente con gli andirivieni temporali e riempire scrupolosamente ogni capitolo della vita del proprio protagonista, il quale è interpretato da differenti attori nelle diverse fasce d’età.
Forte del proprio impianto seriale e della possibilità di riempire spazi che il cinema è costretto ad eludere, questa serie nasce per celebrare il Pibe in vita, ne accoglie probabilmente con sgomento la notizia della morte durante la produzione, sortisce l’effetto di canalizzare l’affetto per la sua figura con un prodotto che non eccelle ma che risulta adeguato e rispettoso dei canoni televisivi.
Se la fiction si è dimostrata poco coraggiosa, pedissequa e forse nel complesso poco ispirata nella trattazione del mito è anche perché si è adeguata ai cliché che affliggono questa fantomatica indagine dell’uomo dietro al genio, cercando di avvicinare sistematicamente il Dio agli uomini per ragioni di identificazione ma dando così per scontate le qualità che garantiscono questo solenne distacco.
In questo senso, il documentario ha mostrato da sempre più dimestichezza con la sperimentazione e con l’accoglienza dell’imprevisto, del momento di grazia che può derivare da una dimensione ineffabile e inaspettata. Maradona by Kusturica (2008) lo dimostra benissimo col suo incedere talvolta sgraziato e altalenante, figlio di un approccio a tratti indeciso da parte dell’autore balcanico, ma che contiene dei lampi di cinema francamente memorabile. In questo incontro nei luoghi che ne hanno costituito il mito, Villa Fiorito, Buenos Aires, Napoli, Cuba, Diego Armando Maradona si confronta con un altro artista affine, gli confessa i propri dubbi e rimpianti e si mette metaforicamente in posa per lasciare che Kusturica ne dipinga un ritratto. Ne emerge un quadro senza dubbio bizzarro, probabilmente a tratti troppo interdetto da una lavorazione difficoltosa ed episodica che vede il regista di Underground effettuare di volta in volta delle visite a Maradona probabilmente senza essere così sicuro che il lavoro sarebbe stato portato a termine.
Ostacolo non da poco, questo può essere anche il pregio di operazioni simili, ed infatti Kusturica riesce a tirare fuori dal Pibe De Oro la sua anima ribelle, il suo spirito anticonformista e anti-imperialista che troppo era rimasto sotteso da chi avrebbe dovuto sondarne le complessità di uomo, di artista e di rivoluzionario armato di pallone.
Può darsi che siano fuori luogo, datate e ripetitive le animazioni che vedono Diego farsi beffe di Carlo, della Regina Elisabetta, di Reagan, Bush e della Thatcher sempre sulle note della solita God Save The Queen dei Sex Pistols; la presenza del regista può risultare invasiva quando offre sfoggio delle sue doti chitarristiche, si autoproclama il Maradona del cinema, tenta impervi paragoni fra Diego e il Dio mesopotamico Gilgamesh e non disdegna, in questo comune avvicinamento, l’idea di inserire un po’ inutilmente delle scene dai suoi film per dimostrare come in fondo ci sia in condivisione un’anima proletaria, gitana e anarchica.
Eppure il rapporto di stima e di amicizia instauratosi fra i due è genuino (lo testimonia il bellissimo momento di palleggio in comune nello stadio della Stella Rossa Belgrado) e consente a Kusturica di essere lì a raccogliere quando Diego semina. Gli confida del rapporto con la cocaina, di come il tempo trascorso senza star vicino alle figlie lo tormenti, del disprezzo verso americani e verso quegli inglesi che tanto si è divertito a beffare all’Azteca, della gioia incondizionata per gli incontri con Fidel Castro. Soprattutto, Kusturica è lì quando Maradona canta La mano De Dios per celebrare sè stesso in un tripudio che il montaggio interpola con le sue magie, è lì quando Maradona viene del tutto sorpreso dalla dedica commovente di Manu Chao.
Momenti importanti, decisivi nel restituire un’altra faccia dell’uomo e al contempo dell’icona, deviazioni intime, sociali e politiche non trascurabili proprio perché contribuiscono a distinguere e separare Maradona da altri grandi campioni più lineari e marmorei, ligi al dovere e per questo decisamente meno intriganti.
Differente è l’approccio con cui si avvicina alla materia Asif Kapadia col suo Diego Maradona (2019). Già affine all’indagine di personaggi complessi nella declinazione sportiva (Senna, 2010) ma anche in quella musicale (Amy, 2015), il regista britannico realizza un documentario che punta a rendersi autoevidente, come se si fosse fatto da sé e i nostri occhi avessero avuto, per un paio d’ore, il potere di fare un viaggio nei tempi e nei luoghi del racconto e assistere da vicino alla duplice natura di Maradona, ancora sul campo e fuori dal campo, ma questa volta con un arsenale d’archivio impareggiabile fornito in primis dalla famiglia e poi fonte delle ricerche effettuate presso le istituzioni. E’ evidente come l’intento di Kapadia sia quello di lavorare di sintesi nelle fasi giudicate di formazione (il film è introdotto da un incipit vertiginoso che racchiude i primi anni di vita e di carriera, fra Argentinos, Boca e Barcellona) e poi di profondità per la parte centrale, quella degli anni a Napoli e dei mondiali dell’86 e del ‘90.
Mettendo sotto la lente di ingrandimento tutto il periodo italiano, Kapadia giunge ad un compendio francamente invidiabile nella sua esemplarità e capace di esprimere con grande efficacia nel montaggio e dovizia di particolari tutte le ambivalenze del personaggio sin qui descritte. Apparentemente chirurgico nel suo andamento, Diego Maradona parrebbe localizzarsi nel versante opposto del ciondolante ed emotivo di Maradona by Kusturica: metodicamente strutturato e operante uno sguardo distaccato sul flusso degli eventi, il documentario di Kapadia vuole essere un resoconto imparziale ma fedele alla complessità degli eventi, sfruttando (e non è un male) la pregnanza delle immagini per rendersi a suo modo informativo e necessario.
Ri-localizzate per quanto riguarda i filmati calcistici (gli stessi gol di sempre ma da nuove angolazioni che ne risvegliano la potenza dal torpore dell’abitudine) e del tutto inedite nei contesti intimi, famigliari e dei dietro le quinte, esse riescono a toccare le corde dell’anima e del sublime e a garantire la perfetta misurazione di ordinario e superlativo, di terreno e trascendente incarnate dal Diego Armando Maradona uomo, calciatore, mito.