“Well, we know where we’re goin’
But we don’t know where we’ve been
And we know what we’re knowin’
But we can’t say what we’ve seen”
Sono questi i versi che si odono non appena iniziano a scorrere i titoli di coda de La Donna Dello Scrittore, fuorviante titolazione nostrana di Transit, ultimo film di Christian Petzold uscito nelle nostre sale. A farli risuonare sono i Talking Heads, la canzone è Road To Nowhere e la voce che riecheggia incessante nelle orecchie anche a freddo, quando la visione è ultimata e di tempo ne è trascorso, è ovviamente quella di David Byrne. Impossibile immaginare una soluzione più azzeccata, un accostamento più naturale e riuscito di quello compiuto dal regista tedesco in chiosa di un lavoro volutamente spiazzante nonché profondamente ispirato, il quale conferisce nuove ipotesi di lettura e aperture di senso ad una filmografia che già si poneva come fra le più rilevanti non solo nel panorama teutonico ma nell’intero vecchio continente. Una Road To Nowhere, appunto, essendo un viaggio perpetuo quello che Petzold fa compiere ai suoi personaggi, soggetti smarriti e migratori alla ricerca di un’identità che restituisca loro delle certezze non contemplate nella realtà opprimente dei totalitarismi, i quali allargando i propri confini di dominio a macchia d’olio li costringono a spingersi con la mente sempre verso il prossimo fronte del porto, a riporre le proprie speranze in destinazioni tanto esotiche quanto probabilmente irraggiungibili. Anche quando tutto sembra compiuto e il sogno sembra materializzarsi e diventare tangibile, in Transit si manifesta lo spettro della stasi, di quell’imprevisto che finisce per generare subbuglio e ripensamento negli animi afflitti dei personaggi tratteggiati da Petzold. Adattamento dell’omonimo romanzo di Anna Seghers risalente al 1942 e figlio di una lunga gestazione che vedeva lo storico amico e collaboratore Harun Farocki come co-sceneggiatore, il film conserva luoghi, personaggi e accadimenti del libro risplasmandone l’essenza più profonda e donandole ancor più vigore attraverso un racconto per immagini che si giova dell’eleganza della messa in scena di Petzold non soffrendo la sua nota predisposizione verso un cinema dalla forte impronta letteraria, la quale rimane di certo molto presente ma di certo non cannibalizza il testo filmico. Il regista tedesco è evidentemente in stato di grazia e ogni singola scelta stilistica o narrativa effettuata sembra rientrare perfettamente nei piani di un’opera ambiziosa, anche scaltra, che si afferma e si nega continuamente rendendo ostico qualsiasi pigro tentativo di critica sterile: ad una voce fuori campo potenzialmente troppo invasiva e definitoria, ad esempio, si risponde dando ad essa una prospettiva intra-diegetica che va ad attenuarne il potere di onniscienza e, inoltre, si lavora sugli attori per sì che questi facciano vivere e parlare i propri personaggi autonomamente, cosa che Franz Rogowski e Paula Beer riescono a fare egregiamente, conservando il segreto dei loro volti (arcigno lui, luminosa lei) e restituendo lo stato di precarietà di corpi che appartengono ad un presente inconsistente e dalle coordinate illeggibili, stritolato com’è dalle maglie di un infausto passato che si rigenera e si ripete incurante delle sembianze del mondo contemporaneo. Le architetture urbane, i mezzi di trasporto di oggi e gli strumenti di comunicazione e l’abbigliamento di ieri, aderiscono simultaneamente nel dare vita ad un purgatorio acronico o eventualmente ucronico (più che anacronistico) rappresentato da una Marsiglia che assume il ruolo di polo di intermediazione; uno spazio indefinito che genera le contraddizioni di un tempo che il film coglie nel suo annullamento, un attimo perenne in cui le diverse epoche si compenetrano rievocando la Storia più nefasta, senza per questo scivolare con banalità nel terreno dell’ammonizione severa e profetica. Come a voler rappresentare una nuova Casablanca cinematografica, Marsiglia funge proprio da spazio di un transito che che si propaga, si allunga diventando per paradosso portatore di atti mancati: un albergo in cui si può rimanere solo se si dichiara che si hanno le carte per partire, le sale di attesa dei consolati, un porto, una caffetteria, quella stessa e identica caffetteria che tuttavia potrebbe rappresentare qualsiasi bar e che finisce per diventare il teatro dell’indugio, della cieca speranza, della disillusione, forse dell’allucinazione. Tanti i luoghi che in realtà definiscono un unico non-luogo. Se il passaggio è un falso movimento e non giunge a destinazione alcuna, allora quello di Georg (come anche di Marie, come del dottore) è un vero e proprio barcamenarsi a contatto fra gli aleggianti spettri di ciò che fu e gli altrettanto poco rassicuranti orizzonti del possibile, del ciò che potrebbe essere o che sarà. Straniante come se l’influenza brechtiana di Harun Farocki fosse riuscita a permeare nel testo anche dopo la sua morte, riecheggiante nel suo regime di continue eventualità incompiute come in un film di Resnais, Transit diventa un infallibile seduttore per tutti coloro che amano le storie di fantasmi (di Gespenster, a voler citare non a caso un altro film di Petzold) in divenire. Dunque storie come quelle di Georg, essere umano in corso di sbiadimento a tal punto da essere condotto dal caso ad assumere l’identità di uno scrittore, a riempirsi delle sue parole, a innamorarsi perdutamente di sua moglie e continuare a voltarsi in quel bar, nell’attesa della sua venuta, durante attimi che si dilatano infinitamente lungo lo spazio del possibile, per poter riacquistare la sua nitidezza e la sua umanità.
