Troppa Alba

La sovraesposizione del proprio volto è una delle trappole più insidiose per un attore, il quale può veder compromessa la propria credibilità rappresentativa se non contiene la frequenza delle proprie apparizioni. Nel caso in cui si riducesse a mostrare al proprio pubblico le tante versioni possibili di sé in un tempo effettivo troppo ristretto limitato, egli finirebbe per sottrarre (almeno un po’) lo spettatore all’incanto della storia raccontata, lo porterebbe ad assegnare meno credibilità a questo o a quel personaggio proprio per via dello scarto sul personaggio che l’eccessiva familiarità del suo volto produrrebbe.

Per quanto possa sembrare astratto, il ragionamento è lungi dall’essere tale e si concretizza in realtà in casi molto noti proprio nel cinema italiano contemporaneo, non esattamente un’industria attualmente capace di generare quella componente mitico-divistica di un’industria culturale come poteva essere la Hollywood dell’Età Dell’Oro (e del resto tale componente pare entrata in evidente crisi anche oltreoceano).

Per fare qualche esempio, negli ultimi 5 anni Riccardo Scamarcio conta ben 19 apparizioni sul grande schermo, Marco Giallini 12, Alessandro Gassmann 11. Ipotizzando che la domanda spettatoriale verso questi attori non sia certo tale da giustificare l’incaponimento di produttori, autori e attori stessi verso l’irreversibile saturazione dell’immagine di questi ultimi, è possibile riconoscere motivazioni che siano del tutto artistiche dietro questa scelta?

Pur non rispondendo direttamente ad un quesito del genere, forse troppo sibillino e provocatorio per essere posto all’interno di una masterclass, Alba Rohrwacher ha provato in qualche modo a legittimare tale tendenza stakanovista nella cornice del Vive Le Cinema Festival raccontando alcuni dei passaggi più decisivi di una filmografia che è in continuo e imperterrito accrescimento.

Come i colleghi succitati, la Rohrwacher conta infatti un foltissimo numero di interpretazioni effettuate negli ultimi anni, sebbene molto raramente queste comprendano quel tipo di commedia all’italiana fuori forma che rappresenta la maggior parte delle produzioni nostrane.

L’instaurare quel particolare sodalizio (Bellocchio, Soldini, la sorella Alice) che muove la coscienza e lo spirito artistico di un’attrice sembra essere stato vitale anche per la Rohrwacher, ma tale evenienza non si realizza ovviamente senza una predisposizione al mutamento, una versatilità che possa consentire un costante riadattamento in vista del prossimo ruolo da rivestire.

Quello dell’attrice, del resto, è un costante entrare-uscire da personaggi tanto immaginari quanto reali se sono la tua carne e le tue ossa a conferire ad essi questa concretezza. La Rohrwacher sente dunque di “abitare” un ruolo e di “farsi abitare” da esso stesso, dando corpo e al contempo di riempiendosi di un personaggio che inevitabilmente contribuirà a (ri)costruire di volta in volta la sua identità in scena nonché quella dietro le quinte, arricchendole e complessificandole.

Nelle sue parole non sembra quindi farsi spazio l’idea di un timore per l’accumulo né la volontà di proteggere in qualche modo la propria immagine e limitarne l’usura: questa vorrebbe costituirsi e consolidarsi proprio a partire dall’accumulo stesso; l’addizione smisurata di nuove interpretazioni dovrebbe quindi auto-legittimarsi perché si compie con grande coerenza all’interno di un cinema in cui, nella quasi totalità dei casi, risiedono velleità autoriali.

Il dubbio latente, tuttavia, rischia di essere quello di un’eccessiva dedizione alla costruzione di un’icona afferente al cinema d’autore: viene da pensare, in fin dei conti, che pur nella apprezzabile ricerca e nel costante lavoro interpretativo l’attrice fiorentina sia diventata un tipo standard da utilizzare ad hoc quandunque vi sia un film che orbita per natura nei contesti festivalieri.

Si parlava di sodalizi, ed in effetti la Rohrwacher al cinema nasce da Marco Bellocchio: una comparsata in uno dei film più decisivi e cruciali degli ultimi decenni del nostro cinema, L’Ora Di Religione (1999), e già nel cineasta di Bobbio scatta evidentemente una scintilla, un’esigenza di recuperare il volto della Rohrwacher per progetti successivi (saranno ben 3: Sorelle Mai, Bella Addormentata, Sangue Del Mio Sangue). Di Bellocchio, come anche di Silvio Soldini, la Rohrwacher parla in termini quasi devoti lasciando trasparire come effettivamente ci fosse una congiuntura molto forte dietro ogni loro collaborazione, uno scegliersi vicendevole che mostra l’autentica necessità di lavorare a stretto contatto più che un essere semplicemente abituati a farlo.

Come è naturale che sia, gli stimoli che caratterizzano questi legami artistici sono molto diversi fra loro: scandagliando la carriera di Alba Rohrwacher si ha proprio la sensazione che tale difformità, esemplificabile attraverso una sorta di scala gerarchica in cui l’attrice ha sempre più controllo e libertà d’azione sul lavoro svolgentesi, sia uno dei nodi fondamentali del suo percorso attoriale.

Se Bellocchio viene definito “maestro”, il genio, il padre ispiratore che funge da guida, Soldini ha un po’ il ruolo dell’amico maschile laddove Laura Bispuri né è la versione femminile, Saverio Costanzo e Alice Rohrwacher sono invece di Alba rispettivamente il compagno e la sorella. Proprio questi due ultimi due legami, rompendo il confine dell’arte per sfociare nella vita vera e propria, consentono alla Rohrwacher di essere in totale sintonia con progetti filmici che vede nascere (Le Meraviglie, Lazzaro Felice) e in cui collabora a livello simbiotico.

È al di fuori di queste fruttuose partnership che la Rohrwacher dovrebbe effettuare quell’operazione di filtraggio che sembra mancarle. Un caso come quello di Troppa Grazia (regia di Gianni Zanasi) sembra in effetti funzionale a diversificare, a dare respiro a questa costante e impetuosa carica attoriale, instancabile nel suo moltiplicare le proprie manifestazioni senza però tenere conto delle succitate criticità di tipizzazione.

Che dire però delle partecipazioni alle ultime produzioni in campo internazionale? Le sirene francesi di Arnaud Desplechin (Les fantômes d’Ismaël), quelle austriache di Markus Schleinzer (Angelo) e infine quelle belghe di Bas Devos (Hellhole) mostrano solo in parte una necessità di varcare i confini del cinema italiano per raccogliere nuovi stimoli e sollecitazioni e sembrano essere troppo finalizzate all’esportazione, di nuovo più quantitativa che qualitativa, di un’immagine efficace ma racchiusa in una gabbia sempre più stringente, un sentore di usato sicuro che rischia di disperdere il potenziale caratterizzante del volto e del corpo attoriale.

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