Che non tutte le storie abbiano un lieto fine è risaputo e purtroppo quella di Philip Seymour Hoffman non fa altro che confermarcelo. Spentosi mestamente il 2 febbraio del 2014 a causa di un’overdose di eroina, l’attore ha lasciato nel mondo della cinematografia e della recitazione un vuoto che ancora oggi appare incolmabile. Ad appena un anno dalla scomparsa non si è ancora spenta l’amarezza fra gli amanti del cinema per aver perso a soli 46 anni uno dei migliori attori della sua generazione, uno dei pochi ad avere il dono di restare se stesso senza venir meno alla complessità che i ruoli interpretati richiedevano.
In una professione come quella dell’attore, infatti, la capacità di sapersi riadattare a seconda delle situazioni, di indossare ogni volta dei panni diversi mettendo in risalto le peculiarità che ogni personaggio porta con sé, rappresenta una prerogativa, un compito non semplice da portare a termine. Quanti riescono effettivamente a far ciò senza scadere talvolta nel macchiettistico o, in caso contrario, in una pallida interpretazione? Hoffman era uno di quei pochi, uno dei rappresentanti più talentuosi di un mestiere arduo e alienante come quello dell’attore può essere.
In una carriera lunga quasi 25 anni, egli è riuscito nell’impresa di rendere memorabile ogni sua partecipazione che lo ha visto coinvolto soprattutto in film indipendenti (Synecdoche, New York per dirne uno) ma anche in qualche blockbuster di successo (Mission Impossible III, la saga di The Hunger Games) e che gli ha regalato la soddisfazione di un Oscar (Truman Capote). Spesso siamo impressionati da quanto i nostri beniamini riescano a calarsi nel personaggio, a studiarlo con dedizione, ad estremizzarne i tratti più caratteristici. Così facendo attribuiamo valore a quelle interpretazioni che per quanto superbe sono forse irripetibili proprio perché richiedono uno sforzo non indifferente per quanto concerne l’immedesimazione. Il trasformismo, dunque, è quella dote di un attore che nella maggior parte dei casi colpisce noi spettatori. Quando invece si guarda recitare Philip Seymour Hoffman si viene persuasi del contrario: la grande interpretazione è quella che fa della naturalezza un’arma vincente, quella che non necessita di salti mortali per convincerci, paradossalmente, della propria autenticità.
I tanti personaggi a cui ha dato volto danno l’impressione di restituire ognuno un qualcosa dell’uomo che vi era dietro la maschera, a partire da quelli drammatici per arrivare a quelli più comici (pochi), esuberanti senza per questo essere fuori dalle righe (vedasi il maggiordomo de Il Grande Lebowski). La stragrande maggioranza di questi ruoli è permeato da un alone tragico (alcuni rivisti ora assomigliano ad un presagio di quella che sarà la sua triste fine), da un tocco di malinconia che abbinato al suo smisurato talento ha costituito un mix difficilmente ripetibile. Viene quindi da pensare che questa maschera indossata sullo schermo da Hoffman corrispondesse al suo vero volto e che ogni film, ogni interpretazione, siano stati per lui un’occasione per esorcizzare quei fantasmi con cui si è trovato a convivere.
Philip Seymour Hoffman era un uomo sensibile, debole, ricaduto nel baratro della dipendenza che per tanti anni aveva avuto la forza di sopprimere e che ha privato noi spettatori di un grande artista che ancora tanto poteva regalare al palcoscenico sia teatrale che cinematografico.